Lo scrittore è una minaccia: perché il writing è l’ultimo gesto mistico del nostro tempo

Carlo Di Stanislao

“L’arte è ciò che rende la vita più interessante dell’arte stessa.”
— Robert Filliou

Che cosa fa uno scrittore? Scrive, certo. Ma non come ce lo immaginiamo. Non redige romanzi, non pubblica editoriali, non insegna scrittura creativa all’università. Uno scrittore, oggi, è un writer. Uno che scrive il proprio nome ovunque: muri, cabine, treni, serrande. Uno che si muove nell’ombra, nelle intercapedini della città, e lascia un segno inutile, incomprensibile, disturbante. Scrive per esistere, per dire “io ci sono”, anche se nessuno capirà mai chi è, cosa vuole, perché l’ha fatto.

Il writer è un mistico urbano. Non un artista, non un ribelle, non un comunicatore. Qualcosa di più radicale, di più inspiegabile. Scrive per sparire. O forse per replicarsi. Il proprio nome — ripetuto fino all’ossessione, fino alla noia — come un mantra esistenziale. Una trasfigurazione. Un mandala di cemento e spray. Sa che tutto sarà cancellato, coperto, levigato. Ma proprio in questa impermanenza c’è il senso del gesto. Un tag è come una preghiera che nessuno ascolta, ma che va detta comunque. Come nei monasteri tibetani, dove si disegna con la sabbia per poi distruggere tutto, perché tutto passa. Eppure ogni granello conta.

Per anni, l’imbrattare mi è sembrato una bruttezza. Un’offesa. Non solo per la legalità, ma per la vista. Un segno storto che rovinava qualcosa di “ordinato”. Oggi capisco quanto fossi ingenuo. Pensavo con la testa del decoro, dell’estetica addomesticata, dell’arte da incorniciare. Oggi vedo in quei segni un’energia primitiva che nessun disegno “bello” potrà mai restituire.

Qui il confronto è inevitabile: i writer contro gli street artist. Banksy contro la tag.

Banksy, lo sappiamo, è l’eroe pop dell’arte urbana. Ironico, intelligente, satirico. I suoi stencil sono ovunque. Fa riflettere. Fa sorridere. Fa pensare. Eppure, proprio per questo, non disturba veramente. Anzi, piace. Piace a tutti. Agli intellettuali, ai social, agli influencer, ai politici, alle gallerie, agli investitori. Piace così tanto che è stato assorbito. È diventato sistema. È la controcultura in formato gadget, in saldo nei musei temporanei delle periferie commerciali.

Il writer, invece, non piace a nessuno. Né alla destra né alla sinistra. Né ai curatori né ai cittadini. Né ai nostalgici né agli innovatori. Il writer sporca. Deturpa. Vandalizza. Fa qualcosa che non è vendibile, non è esponibile, non è “capibile”. Nessun assessore alla cultura lo inviterà mai a partecipare a una call pubblica. Nessuna galleria lo includerà in una mostra collettiva. Non perché non sia bravo, ma perché non è utile a nessun messaggio.

Il writer non ha una causa, né una critica sociale da proporre.
Banksy fa disegnini contro la guerra — grazie, davvero. Ci voleva lui a dirci che le bombe fanno male. Jorit stampa i volti dei miti pop del nostro tempo — Maradona, Mandela, Pasolini — come se servissero nuovi santini urbani da venerare tra un distributore automatico e una rotatoria. Ma il writer non educa, non consola, non omaggia. Non illude che stiamo facendo qualcosa. Non abbellisce l’orrore.

Il writer non camuffa. Il writer espone.

Espone la frattura, il disagio, l’inutilità stessa del gesto. La sua incomprensibilità è la sua forza. Mentre la street art cerca consenso, il writer cerca sparizione. Il primo lavora con l’immagine, con la metafora, con la retorica. Il secondo scava nell’astrazione totale, nella ripetizione mantrica, nell’ego dissolto.

In questo, il writing è più vicino all’arte concettuale che alla street art. È pura presenza performativa. È linguaggio senza linguaggio. È l’opposto dell’“opera”. È una liturgia dell’assenza. È, in fondo, una delle ultime esperienze punk del nostro tempo.

E poi c’è il tema della bruttezza. Che cos’è brutto?
Secondo Umberto Eco, la bruttezza non è il contrario della bellezza. È una categoria attiva, inquietante, provocatoria. Nella Storia della bruttezza, Eco mostra come il brutto abbia sempre avuto un ruolo fondamentale: disturbare l’ordine, aprire varchi, rendere visibile l’invisibile. Le immagini sgraziate, grottesche, mostruose, hanno sempre avuto più potere della bellezza accomodante. Il brutto non ti accarezza: ti costringe a guardare.

E cosa c’è di più “brutto” di una tag incomprensibile su un muro intonacato da poco?
Ma se ci pensiamo bene, è davvero quella scritta il problema? O lo è il nostro bisogno di perfezione, di pulizia, di ordine visivo? Forse quella tag ci infastidisce perché non risponde. Non si spiega. Non si giustifica. Non si vende. E quindi resiste.

Un tag non è un’opera. È una ferita. Una lapide. Un testamento esistenziale.
Un nome che grida: io c’ero. O forse: io non ci sono mai stato davvero.
E mentre Banksy diventa NFT, diventa logo, diventa museo, il writer resta imprendibile. Imperdonabile. Invisibile. E per questo vero. 

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